stralci da una ricerca di Oreste Delucca
(tratto da “Olio extra vergine d’oliva di qualità” , CAROL Consorzio Associazioni Romagnole Olivicole 1997 pp.114)
Fin dagli albori della storia, l’olivo era coltivato in maniera diffusa nei paesi del Mediterraneo, come attestano gli scritti più antichi e le attrezzature per l’estrazione dell’olio, ritrovate nelle sedi delle più remote civiltà […](1).
Il territorio della bassa Romagna, tradizionale punto di demarcazione fra l’area padana e l’area tipicamente mediterranea, è sempre stato un punto di osservazione privilegiato per lo studio delle colture e della vegetazione nel suo complesso. Fra le piante caratteristiche del clima più temperato, l’olivo costituisce una essenza attestata su questo suolo fin dalla preistoria. Le dimensioni della sua presenza nel tempo si sono modificate in seguito alle variazioni climatiche ed al conseguente oscillare del suo limite settentrionale di espansione[…](2).
A partire dall’età villanoviana quantomeno, la presenza dell’olivo in area riminese può dirsi continuativa […]. Il forte radicamento dell’olivo in questo territorio è testimoniato dalla sua persistente presenza anche nella difficile fase storica che vede la caduta dell’impero, il dispiegarsi delle invasioni barbariche, la crisi dell’assetto agricolo […](3). Nei secoli dell’alto Medioevo, numerose fonti archivistiche segnalano la presenza di olivi sparsi, oppure di oliveti veri e propri nelle campagne riminesi presso Coriano, S.Savino, Marazzano, Santarcangelo, Savignano, Covignano, Vergiano, Corpolò (4). Anche per il territorio cesenate le fonti altomedioevali recano tracce di olivicoltura […](5). Dopo il Mille sono più numerose le carte che testimoniano la diffusione dell’olivo in ambito riminese […](6). A partire dal Duecento, la documentazione archivista permette di cogliere una fitta presenza dell’olivicoltura nei castelli di Mondaino, Saludecio, Meleto, Cereto e soprattutto Montegridolfo (che ancor oggi, non a caso, ha un olivo per emblema comunale) […](7). La documentazione notarile successiva (specie quella quattrocentesca) conferma il peso dell’olivo in tutto il Riminese, con speciale fortuna sui rilievi collinari. Talvolta l’olivo appare in associazione alla vite; solo saltuariamente emerge la coltura specializzata […]. La notevole diffusione dell’olivo in tutto il contado riminese, nel tardo Medioevo, trova una eloquente testimonianza grazie alla diffusa presenza dei molini da olio e delle scorte esistenti nei castelli di Montefiore, Longiano, Coriano, Santarcangelo, Verucchio, Monte Gallo, Agello, Albereto, S.Savino, Montecolombo, Saludecio, Meleto, Mondaino, S.Clemente, Misano, Montegridolfo, Gemmano […](9)
Per l’area cesenate le fonti archivistiche risultano meno abbondanti, comunque significativi sono i capitoli della Fiera d’Agosto stilati nel 1509 riflettenti una situazione in atto da tempo: essi disponevano il divieto per qualunque forestiero di portare a vendere in città il vino, l’olio e il sale. Si tratta ovviamente di una norma tendente a proteggere le derrate locali dalla concorrenza esterna; quindi certificano senza ombra di dubbio la presenza dell’olivicoltura in quel territorio (10). Anche nel prosieguo di tempo la coltura dell’olivo continua senza interruzioni o declino […](11).
La documentazione settecentesca può giovarsi particolarmente della Pratica agraria scritta dall’abate Giovanni Battarra. In questa opera è dato un grosso rilievo all’olivo ed alla sua coltura; le indicazioni sono molto circostanziate a partire dai vivai, la preparazione del terreno, le cure da praticare mese per mese […](12).
Nel frattempo una serie di eventi climatici sfavorevoli aveva recato grave pregiudizio al patrimonio olivicolo locale, riducendo in misura drastica, all’inizio dell’Ottocento, la produzione riminese. Essa, che un tempo consentiva perfino una certa esportazione e, più di recente soddisfaceva a malapena le esigenze locali, ora risultava nettamente scemata […](13).
La successiva ripresa sembra essere avvenuta piuttosto lentamente, forse per la prudenza dei proprietari terrieri nell’effettuare investimenti considerati a rischio; non pare casuale il fatto che gli incentivi dello Stato Pontificio posti in essere nel 1830 per favorire le nuove piantagioni di olivi e mori-gelsi, in ambito riminese abbiano stimolato solo la messa a dimora di questi ultimi e non degli olivi (14). Ma col tempo gli oliveti del territorio si ricostituiscono: la produzione gradualmente riacquista importanza (15).
Le Notizie sulle condizioni industriali della provincia di Forlì per l’anno 1888, forniscono alcuni scarsi elementi circa i molini da olio: Nel comune di Montegridolfo si trovano 5 molini da olio, i quali in media producono complessivamente ettolitri 190 di olio di oliva all’anno ed occupano 33 operai maschi adulti (16).
Più esauriente risulta la seconda edizione delle Notizie, relative all’anno 1900: L’industria dell’estrazione dell’olio dalle olive è esercitata nella provincia in 22 comuni, dove trovansi 105 frantoi, tutti a forza di uomini o di animali, con 127 torchi e 531 lavoranti […]. Le olive sottoposte ai frantoi sono tutte raccolte nella provincia stessa e generalmente nei luoghi ove sono situati i frantoi e provengono dai fondi dei proprietari dei frantoi medesimi ovvero sono a questi portate per estrarne l’olio, dietro compenso in natura, che si aggira intorno al 4% del prodotto ottenuto. Si producono oli commestibili e in parte anche olio combustibile, e quello che non serve o che sopravana ai bisogni delle famiglie proprietarie dei frantoi o degli oliveti, viene posto in commercio nei comuni di produzione o nei mercati della provincia e anche della limitrofa Pesaro-Urbino (17).
All’inizio del secolo la struttura molitoria del circondario di Rimini rappresenta la gran parte di quella provinciale; giacché essa costituisce uno specchio fedele della produzione, se ne ricava il ruolo preponderante della olivicoltura riminese all’interno della provincia di Forlì […].
Nei primi anni del secolo la Rivista agraria romagnola cura una rubrica che periodicamente produce informazioni e consigli in merito all’olivicoltura. Frattanto il “Comizio e Circolo Agricolo di Rimini” si premura di diffondere norme razionali in ordine alla potatura dell’olivo chiamando, per più anni di seguito, esperti potatori della provincia di Pisa da mettere a disposizione degli agricoltori nostrani (18). Negli anni Trenta l’olivo occupa poco più di 5000 ettari, di cui 500-600 in coltura specializzata (19). Una panoramica abbastanza analitica circa la situazione di quegli anni, può cogliersi da un rapporto del 1934 firmato da Mario Farina, che forse non è male riprodurre nella sua intierezza, giacché i suggerimenti ivi contenuti recano utili spunti per conoscere lo stato di fatto: Nel Riminese, su una superfìcie agraria e forestale di ettari 47656, la coltura dell’olivo occupa ettari 5461, dei quali 563 in coltura specializzata e 4898 in coltura promiscua. Solo il comune di Cattolica è sprovvisto della preziosa pianta oleifera; all’incontro si può affermare che l’olivo rappresenta la vita di alcuni comunelli di collina, ove le viti da tempo frllosserate, in gran parte sono scomparse ed i nuovi impianti procedono molto a rilento. Tali i comuni di Montefiore, Montegridolfo e Saludecio nei quali l’olivo occupa rispettivamente il 22%, il 19%, il 16,60% della locale superficie agraria e forestale.
I prodotti totali in olive dell’ultimo triennio assommano mediamente a quintali 24535, con un rendimento in olio di quintali 3600, occupando nell’economia del Riminese il quinto posto, subito dopo i prodotti del granoturco.
II rendimento medio per ettaro è purtroppo molto basso e se si hanno punte di 44 per la coltura specializzata (Saludecio) e di quintali 5,6 per la coltura promiscua (Montegridolfo), la media generale arriva appena a quintali 21 per la coltura specializzata e quintali 3 per la coltura promiscua.
Le cause di questa bassa produzione sono molte e da ricercare per le olive soprattutto nella bassa densità delle piante per ettaro e nella poca fruttificazione per pianta. Diamo un rapido sguardo a queste cause.
La forte ghiacciata del 1928-29 ha levato di mezzo parecchie piante in piena produzione, cosicché oggi la collina appare quasi spoglia di olivi e la stessa coltura specializzata ha una densità media di 120-150 piante ad ettaro, fatte le dovute eccezioni per il solo comune di Saludecio, ove si hanno 200 piante per ettaro.
Se facciamo un confronto con la Toscana ove si hanno le stesse varietà di olivi e si raggiungono comodamente le 250-280 piante ad ettaro, si vedrà chiaramente come per una più abbondante produzione si impongono prima di tutto nuovi impianti, e per rimpiazzare gli olivi deperiti o morti, e per aumentare la densità nella coltura specializzata e soprattutto nella coltura promiscua.
I nuovi impianti vanno fatti solo con piantine provenienti da seme, innestate con le varietà che nella zone incontrano le maggiori simpatie (come il Coreggiolo, il Moraiolo, il Leccino), se si vogliono avere piante sane, a fusto intero e non cariato, come la maggioranza dei nostri olivi ottenuti per ovoli. La Cattedra Ambulante di Agricoltura mette a disposizione dei coltivatori olivi venuti dalla Toscana, di circonferenza 6 a 8 cm di immunità quasi assoluta alle malattie crittogamiche, a foglia chiara, ad abbondantissimo apparato radicale, al prezzo di lire sei per pianta.
Anche la produttività per pianta è molto bassa: da uno studio fatto nelle varie località risulterebbe una produzione media nell’ultimo triennio per pianta di 4 chilogrammi di olive, pari a chilogrammi 0,800 di olio per pianta. Ciò è soprattutto da attribuirsi ai sistemi di potatura troppo irrazionali, praticati dalla maggioranza ogni due anni e con criteri del tutto errati, ed anche al concetto che l’olivo sia poco o nulla esigente in fatto di concimi.
Nel campo della potatura si dovrebbero imitare, per quanto è possibile, i bravi olivicoltori di Montegridolfo, veri maestri in quest’ arte. Unici nella zona essi potano ogn’anno per stimolare la fruttificazione di ogni anno; tengono perfettamente svasate le chiome all’interno, tolgono ì rami situati in cattiva posizione e soprattutto coll’accorciare a circa un terzo della loro lunghezza i rami troppo vigorosi e diritti, impediscono che la pianta sfugga in altera a detrimento della produttività.
Si deve infatti assicurare alla pianta la massima aereazione e nello stesso tempo quel giusto equilibrio fra i rami a legno e quelli a frutto, sinonimi di produzioni sane ed abbondanti. La potatura invernale va poi completata con una energica rimonda estiva, con la quale si dovranno togliere quei polloni nati sul tronco, che non fanno che sottrarre alimento alla pianta.
Così per la concimazione, sarà necessario ricordare che l’olivo ha bisogno di concimi organici opportunamente corretti con concimi chimici, e che i nostri terreni di collina sono in gran parte sprovvisti di materiale organico.
Fa d’uopo quindi somministrare letame in abbondanza oppure, se questo dovesse mancare, fare il sovescio, il tutto equilibrato con perfosfato (3-5 cgr. per pianta) e con solfato potassico (chilogrammi 1,5 per pianta). Questi concimi dovrebbero essere sparsi e interrati nel gennaio o febbraio, dopo la potatura, su tutta la superficie del terreno compresa sotto la chioma delle piante, possibilmente ogni due anni.
Il problema poi che dovrebbe maggiormente preoccupare i nostri olivicoltori dovrebbe essere quello della resa troppo bassa in olio, resa che negli anni buoni sale ad un massimo del 18% e negli anni magri, come il 1933, scende ad un minimo del 13-14%. A questo si potrebbe rimediare soprattutto sostituendo i vecchi molini, molte volte azionati dalla forza di un asino, con oleifici moderni dotati di frantoi razionali, di presse maggiormente potenti, dì separatoi centrifughi; nello stesso tempo diffondendo molto di più i solventi chimici si potrebbe estrarre realmente tutto l’olio contenuto nelle olive ed avere sanse completamente esauste.
Buona pratica poi, per meglio ripartire la pressione, che specie per l’olio di prima stretta deve essere graduale e lenta, sarebbe quella di interporre fra friscolo e friscolo, dei diaframmi di fibra o di ferro.
Con tutto che in questi ultimi anni si sia fatto molto in questo campo, specialmente per opera di alcuni olivicoltori, sparsi nei comuni ad olivicoltura più intensa, pure nella maggioranza siamo ancora ben lontani da quella razionale attrezzatura che si impone per il massimo rendimento in olio (20).
Forse proprio a seguito di tali suggerimenti, nel 1935 faceva la sua comparsa in questo territorio il primo oleificio “modernissimo”, teso a garantire un prodotto ad alto grado di finezza. L’apparecchiatura, impiantata nell’azienda Montemaggi a Cento di Roncofreddo, comprendeva: un frangitore rotativo regolabile BREDA, per la prima molitura; un frantoio a due macine, della stessa ditta, per la seconda molitura; due presse della medesima marca, per la prima spremitura; una pressa VERACI, a 300 atmosfere, per la seconda spremitura; una centrifuga ALFA LAVAL per separare l’olio dall’acqua di vegetazione (21). La meccanizzazione entrava dunque, timidamente, anche nell’olivicoltura locale.
Bibliografìa
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- B. Bagoljni, Il neolitico, in “Quaderni della Pesa”, n. 3 (1987), p. 36.
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- Delucca, L’abitazione riminese nel Quattrocento, p. 633; Archivio di Stato Rimini, not. Paolo Albertini 1470/1499, e. 139; not. Nicolò Monti 1483/1484, e. 146; not. Nicolò Monti 1490/1492, e. 18; Archivio di Stato Forlì, Fondo notarile di Santarcangelo, not. Antonio Tentarelli 1479/1481, e. 104; Fondo notarile di Montefiore not. Francesco di Angelo 1480/1483, e. 42; Fondo notarile di Longiano, not. Biagio Ferrandi 1467/1487, C. 87. Come avrò modo di riprendere, la soma riminese da olio corrisponde a litri 75 circa.
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